AMIN MAALOUF, Bompiani, 1999

L'identità

Identità: non c’è parola più ambigua, di cui non si sia fatto, soprattutto negli ultimi anni, un uso più ambiguo, rischioso e pericoloso. Merito di Maalouf in questo libro è di discuterne in tono direi quasi dimesso, con solido buon senso, senza eccessive pretese teoriche, con buone esemplificazione storica e con calzanti ma discreti riferimenti personali che non scadono però nel compiacimento autobiografico. Ma già l’incisivo titolo francese, “Les identités meurtières”, “Le identità assassine”, non si capisce perché semplificato e impoverito in italiano, suggerisce quanto l’analisi su questo tema delicatissimo sia affilata e spietata. La passione è trattenuta e sciolta nell’analisi: l’autore non vuole ottenere facili effetti retorici smuovendo i sentimenti ma persuadere con la forza della ragione, che ha una sua indubbia passionalità.
L’autore ha lasciato il Libano a ventisette anni e parte dalla domanda che si è sentito spesso rivolgere, se si sentisse più francese o più libanese. La sua risposta, l’uno e l’altro, non ha mai convinto i suoi interlocutori. I più tenaci, in perfetta buona fede, gliela riformulavano, facendo appello al suo intimo sentire: «Ma nel suo intimo cosa si sente?” E da qui si dipana un primo stadio della riflessione. Non è un problema di dosaggio, metà e metà, settanta e trenta, è una combinazione complessa, personalissima, una sintesi delicata che il mondo fuori di noi ha la facoltà di ostacolare o di lasciare ai suoi liberi e imprevedibili esiti. “L’intera umanità non è fatta d’altro che di casi particolari, la vita è creatrice di differenze, e se c’è “riproduzione”, non è mai in maniera identica. Ogni persona, senza eccezione, è dotata di un’identità composita; basterebbe che si ponesse alcune domande per scovare fratture dimenticate, ramificazioni insospettate, e per scoprirsi complessa, unica, insostituibile».
L’irrigidimento delle ideologie, e gli interessi che spesso le sostengono e le gonfiano, sostituiscono costantemente alla costruzione dell’identità, che è uno splendido, lento processo alla base delle civiltà e della trama delle culture, la sua cristallizzazione in una maschera deformante, priva di autentica vita. A questo processo Maalouf reagisce appunto con il genio del buon senso, con il rifiuto della generalizzazione che uccide: «“gli ebrei hanno confiscato…”, “i neri hanno incendiato…”» e via dicendo. «Poiché è il nostro sguardo che rinchiude spesso gli altri nelle loro più strette appartenenze, ed è anche il nostro sguardo che può liberarli». Questa chiusura dell’altro nel recinto della proprio appartenenza esprime proprio il carattere “assassino” di una concezione rigidamente identitaria. «Il fatto è che non si sa mai dove si fermi la legittima affermazione dell’identità e dove cominci lo sconfinamento nei diritti altrui».
Ma Maalouf spiega anche come avviene storicamente questo irrigidimento aggressivo nella propria identità che fa divampare tanto odio. Uno dei problemi che l’autore individua con grande lucidità è il rapporto tra modernità e identità, soprattutto, ma non esclusivamente, nei paesi arabi. La modernità nei paesi del cosiddetto “terzo mondo” è stata importata dal colonialismo europeo, risulta come una realtà imposta insieme allo sfruttamento delle risorse, alla limitazione delle libertà, all’imposizione di un modello economico, sociale e culturale. Se ne vedono certamente gli aspetti positivi, ma è difficile separarla da un sentimento di frustrazione e di umiliazione. «Quando la modernità reca il segno dell’ “Altro”, non sorprende che certe persone agitino i simboli dell’arcaismo per affermare la loro differenza. Lo si osserva oggi in certi musulmani, donne e uomini, ma il fenomeno non è appannaggio di una cultura o di una religione».
Il punto è cruciale: chi accetta un modello, un sistema di principi che viene da fuori (siano la democrazia, la laicità o il pluralismo o il relativismo etico o anche l’istruzione pubblica obbligatoria) rischia di sentirsi un rinnegato, un traditore dei valori più intimi della propria cultura e le sintesi in questo campo si elaborano col tempo e con costi in genere piuttosto alti.
Il pensiero unico europeo e in generale “occidentale”, la mondializzazione accelerata, provocano secondo Maalouf, per reazione, un rafforzamento del bisogno identitario. Le religioni raccolgono e rilanciano questo bisogno e si trasformano, secondo una riuscita definizione dell’autore, in tribù planetarie, tribù in quanto fortemente identitarie, planetarie in quanto scavalcano le frontiere e creano solidarietà trasversali rispetto agli stati mentre d’altra parte rafforzano in molti casi il sentimento di nazionalità.
E qui si pone, a mio avviso, anche il problema dello svuotamento del significato propriamente spirituale della religione a vantaggio del suo valore di tradizione. Conseguenza: i contenuti squisitamente religiosi diventano diluiti e generici e facilmente asservibili a visioni politiche, manipolati da governanti spesso non praticanti ma impegnati a sostenere “le radici” religiose del proprio popolo contro “l’altro”, come se la motivazione scaturisse quasi esclusivamente dalla contrapposizione.
Ma come si può domare il “mostro” del fanatismo identitario? Le conclusioni di Maalouf sono alquanto articolate e scendono anche nell’esemplificazione e nella proposta ma non mi sembra opportuno seguirlo in dettaglio su questa strada, anche per non guastare nel lettore il piacere dell’analisi e del confronto diretti.
Il discorso si ricollega in parte all’inizio: siamo la somma di diverse identità, ci costruiamo sommando diverse esperienze. Nel momento però in cui avvertiamo o ci suggeriscono che in una parte della nostra identità plurale c’è qualcosa di estraneo alla tradizione di appartenenza, può nascere una lacerazione e rischiamo di irrigidirci, ci sentiamo costretti a scegliere e si crea il dramma, anzitutto personale, che poi diventa anche sociale. Dobbiamo riuscire ad ampliare la nostra identità senza mortificarla. Anche linguisticamente, dice Maalouf, questo predominio assoluto dell’inglese rischia di essere subito con risentimento. Come la modernità imposta. Le persone dovrebbero conoscere, accanto alla proprie lingua materna, che non debbono mai dimenticare e coltivare sempre, e all’inglese, necessario ormai per ogni tipo di scambio internazionale, una terza lingua, una lingua del cuore liberamente scelta, che sia il segno di un’intima apertura culturale.
Tentativi, suggestioni, per rompere il cerchio delle identità assassine, aggredendo la paura che le fomenta: la paura di essere sradicati, atomi solitari che vorticano nel vuoto, in un mondo che cambia troppo velocemente.

L'Autore

Giornalista, saggista e scrittore libanese, è nato a Beirut nel 1949 ma, dopo gli studi di economia e sociologia e i primi esordi nel campo del giornalismo, si trasferisce a Parigi nel 1976 per l’insorgere nel suo paese della guerra civile, i cui strascichi quarantennali sono ancora vivi.
Cristiano per tradizione familiare (greco-melchita era la madre, cristiano-maronita il padre), la sua lingua madre è stata l’arabo, quella degli studi il francese, poi divenuta la lingua d’adozione nella quale ha scritto tutti i suoi libri.
Esordì con il saggio “Le Crociate viste dagli Arabi” (1983), continuamente ristampato, che ha contribuito a diffondere in Occidente un punto di vista diverso da quello consueto su uno degli episodi più controversi del secolare rapporto tra Europa occidentale e mondo arabo. Ha poi scritto diversi romanzi tra i quali ricordiamo: “Leone l’Africano” (1986), “Samarcanda” (1988), che ha come protagonista il celebre poeta persiano Omar Khayyam, “I giardini di luce” ((1991), dedicato al profeta Mani, fondatore della religione che da lui prese appunto il nome di manicheismo, “Gli scali del levante” (1997), “Il periplo di Baldassarre” (2000). Ha pubblicato anche i saggi “L’identità”, del 1999, e “Un mondo senza regole”, del 2009.
Uomo posto alla confluenza tra cristianesimo, cultura araba e laicità occidentale, Maalouf predilige spesso il romanzo storico, con storie ambientate in scenari nei quali si incrociano diverse culture e tradizioni, e nelle quali il confronto delle “identità” è un portato naturale della storia, cioè della vita stessa.